Sì, siamo stati emigranti. Ma è giusto il
paragone?
Ho conservato il passaporto di mio padre. Tempestato
di timbri d’ingresso.
Non entravi in Svizzera senza dimostrare dove
avresti lavorato, dove avresti abitato e quando saresti andato via.
Dopo la guerra, pochi erano i paesi rimasti
in piedi in Europa. C’era anche il Lussemburgo? Erano gli unici ad avere le
fabbriche, gli impianti industriali e le infrastrutture, perdute dagli altri
sotto i bombardamenti. Un ritmo produttivo gigantesco, per i pochi abitanti di
quei paesi.
La Volvo svedese veniva in Italia a reclutare
gli operai di cui aveva bisogno. E in Svizzera scorreva il sangue sulle mani
callose.
Ma chi lavorava, aveva anche dei diritti. Ed
era contento di stare in un paese civile. Non come gli schiavi nei nostri campi
di pomodori.
Le leggi venivano rispettate. Perché chi
sgarrava era immediatamente rimpatriato.
Il profitto di quel lavoro emigrante ha creato
la loro ricchezza, e la rinascita dell’Italia.
Ma ci hanno regalato qualcosa?
Le parole di Manfredi nel bellissimo film
“Pane e cioccolata” dovrebbero essere incise sul bianco marmo degli eroi. “Je
damo già er culo, me pare che basti”.
È giusto il paragone?
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