Recenti polemiche su un politico non
laureato, mi hanno riacceso lo stupore
per la fiducia degli italiani nel titolo di studio. Infatti non mi spiego la
ragione per la quale un popolo, la cui storia ha reso tra i più increduli del
mondo, possa seriamente attribuire tanta importanza ad un pezzo di carta,
rilasciato per giunta da un “Ente pubblico”.
La premessa che i nostri nonni analfabeti
erano soliti rivolgere ironicamente a qualche istruito, quando dicevano: “Tu
che hai studiato!”, mi fa escludere l’ignoranza.
Infatti, come il gatto che istintivamente si
ritrae dall’uomo che non conosce, l’ignoranza non assopisce l’istinto naturale
alla diffidenza.
Non resta dunque che pensare a qualche strano
meccanismo di istupidimento collettivo, che ha portato gli italiani ad essere
il popolo dei dottori, e l’Italia il luogo in cui il fatturato dei produttori
di targhe e timbri è in costante aumento.
Certo, la laurea sancisce il termine di un
corso di studi indispensabile, laddove sia richiesta una capacità che si impara
soltanto dopo lunghe fatiche. Nessuno affiderebbe infatti la costruzione di un
ponte a qualcuno che non sia un ingegnere.
Ma questo riguarda tutti coloro che
raggiungono capacità specifiche. Se lo
studio è l’acquisizione di una competenza, forse non si deve definire studio la
fatica dell’artigiano o del pittore, che vuol raggiungere la perfezione nel
proprio lavoro?
Nessuno di noi, però, affiderebbe la
costruzione di un tavolo a un falegname, soltanto perché ci esibisce un
diploma.
La laurea invece pretende il rispetto sulla
fiducia e marcia tronfia e impettita, nella pretesa di farci credere che una
semplice attestazione sia sufficiente a garantire una vera competenza, per
giunta da far valer valere per tutta la vita.
Invece
ciò che si è imparato si può anche dimenticare, mentre ciò che non si può
perdere sono le doti che dovrebbe avere un politico, l’equità, la saggezza, la
moderazione, la capacità di decidere, che non si conseguono con un titolo di studio.
Inoltre, mentre l’artigiano riceve con la consegna
dell’opera anche il controllo sul suo lavoro, la caterva di targhette ridondanti
di Dr. e Dr.ssa sulle porte dei ministeri, delle banche, del servizio sanitario,
delle regioni e dei vari enti inutili, quale controllo ricevono?
Esse sono la doratura che nasconde il metallo
scadente sottostante, perché pare francamente difficile che una classe politica,
dalla rara bassezza morale come quella che ha governato negli ultimi cinquant’anni,
si sia lasciata sfuggire l’occasione di mettere le mani su uno strumento
simile. E che le lobby per la difesa di se stesse, di cui trabocca questo
paese, non siano riuscite a fare il miracolo di far passare attraverso la
stretta cruna dei concorsi pubblici, non i cammelli ma gli asini.
Se il gioco non fosse truccato non vedremmo
le trote con la laurea ed i giovani migliori emigrare all’estero. Tant’è che,
in questa ottica, un politico senza quel titolo di studio offre forse migliore
affidabilità. Meditate gente, meditate.
La fiducia attribuita al pezzo di carta trova
piuttosto riscontro soltanto nell’inefficienza ed ognuno di noi si è imbattuto almeno
una volta nella vita in qualche imbecille, messo a dirigere un settore
pubblico.
Il laureato che sa fare il proprio mestiere
non ha bisogno di nascondersi dietro una pergamena. Ma chi non lo sa fare
farebbe la fame, se valesse la competenza. Costoro non si vergognano di far
finta di non sapere che, se esiste una disciplina, ci deve essere stato prima
qualcuno che l’ha resa possibile. Ovviamente senza laurea. Dunque, la capacità e
il merito non possono dipendere da essa.
Né Galileo Galilei, né Eugenio Montale né Steve
Jobs erano laureati.
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